Di Angelo Ginex, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario e Avvocato, Ginex & Partners – Studio Legale Tributario, da IPSOA Quotidiano, 8 luglio 2013
Le risultanze degli studi di settore hanno una natura meramente presuntiva e rappresentano esclusivamente un indicatore che evidenzia un possibile comportamento illecito del contribuente. La gravità, la precisione e la concordanza possono derivare unicamente dagli effetti del contraddittorio che l’Ufficio deve attivare obbligatoriamente a pena di nullità dell’accertamento.
È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza del 7 giugno 2013, n. 14492, conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza tributaria di legittimità (Cass., sentenza 31 maggio 2013, n. 13773; Cass., sentenza 10 aprile 2013, n. 8706; Cass. SS.UU., sentenza 18 dicembre 2009, n. 26635).
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha affermato tout court che il giudice tributario, qualora ritenga raggiunta la prova circa l’attendibilità dei redditi dichiarati dal contribuente, è obbligato a motivare adeguatamente il proprio convincimento, dovendo valutare analiticamente sia gli elementi addotti dalla parte per giustificare il contestato scostamento dalle medie di settore, sia tenere in considerazione gli ulteriori elementi di anomalia che sono stati indicati dall’Agenzia delle Entrate a conferma delle risultanze dell’indagine ricostruttiva standardizzata.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento con cui recuperava a tassazione ai fini IVA, IRAP e IRPEF presunti ricavi in nero relativi all’anno d’imposta 2003, in considerazione di un evidente scostamento tra quanto dichiarato dal contribuente rispetto allo studio di settore. Il contribuente ricorreva avverso l’atto impositivo ricevuto alla Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva le doglianze del contribuente. L’Agenzia delle Entrate, soccombente in primo grado, impugnava la sentenza innanzi alla Commissione Tributaria Regionale che, in riforma della decisione emessa dai giudici di prime cure, annullava il predetto
atto impositivo, ritenendolo unicamente fondato sul contestato scostamento.
A questo punto, l’Ufficio portava la vicenda all’attenzione della Suprema Corte, la quale ha ritenuto che i giudici della Commissione Tributaria Regionale abbiano applicato erroneamente i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite (cfr. Cass., sentenza del 18 dicembre 2009, n. 26635) in tema di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri e degli studi di
settore.
Secondo i Giudici di Piazza Cavour, alla luce dell’insegnamento del massimo consesso, il giudice del merito avrebbe dovuto valutare analiticamente, da un lato, gli elementi addotti dalla parte privata per giustificare il contestato scostamento dalle medie di settore, dall’altro, tenere in considerazione gli ulteriori elementi di anomalia indicati dall’Ufficio, a conferma dell’indagine ricostruttiva standardizzata. “Al contrario – scrivono gli Ermellini –, risulta dalla motivazione della pronuncia impugnata che il giudice del merito ha motivato il proprio convincimento con considerazioni vaghe e di puro stile, del tutto elusive delle concrete tematiche poste dalle parti e peculiarmente dei dati fattuali sui quali l’accertamento risulta fondato ovvero sui quali sono fondate le contestazioni di parte
contribuente”.
Ne consegue che l’accertamento emesso in base allo scostamento tra reddito dichiarato e reddito atteso dagli studi di settore è considerato presunzione semplice, in ossequio all’art. 2729 c.c., secondo cui “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti” e, quindi, le fattispecie non stabilite dalla legge sono rimesse alla valutazione del giudice di merito (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 105/2003).
Gli studi di settore rappresentano esclusivamente degli indicatori di una possibile anomalia fiscale: i requisiti di gravità, precisione e concordanza di tali presunzioni non sono determinati ex lege dal semplice scostamento del reddito dichiarato rispetto a quello rideterminato dal software Gerico.
La Suprema Corte evidenzia quindi – ancora una volta – come sia necessario il contradditorio endoprocedimentale, quale elemento determinante per adeguare alla realtà economica del singolo contribuente la mera ipotesi di evasione rilevata dallo studio di settore. In sede di contradditorio il contribuente ha “l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame”. Mentre è obbligo dell’Ufficio motivare con adeguatezza l’avviso di accertamento basato sugli studi di settore, evitando l’automatismo dell’accertamento in base allo scostamento, ed integrare la motivazione stessa “con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto”, evidenziando le ragioni per cui sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
La pronuncia consolida il filone giurisprudenziale inaugurato dalle Sezioni Unite con sentenza del 18 dicembre 2009, n. 26635, secondo cui “gli studi di settore costituiscono indici rilevatori di possibili antinomie nel comportamento fiscale del contribuente sotto il profilo della divergenza dell’ammontare dei ricavi rispetto all’elaborazione statistica che determina un livello definito “normale” di redditività. Peraltro, in ossequio al principio di capacità contributiva, lo scostamento deve assumere connotato di grave incongruenza e, conseguentemente, l’Amministrazione finanziaria è tenuta alla verifica in contraddittorio della situazione economica del contribuente al
fine di accertare la compatibilità tra l’effettiva capacità reddituale del contribuente e gli elementi desumibili dagli studi di settore”.
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